Mense scolastiche no bio e in formato «Lunch box»

02/07/2020 – Più che a una pausa pranzo, per gli studenti italiani dal 14 settembre mangiare a scuola potrebbe somigliare a un picnic. Le mense scolastiche dovranno osservare dei turni e, laddove non sarà possibile riaprirle, i cibi saranno consegnati in lunch box di plastica termosaldate e consumati al banco con posate monouso. Le cucine in gran parte rimarranno chiuse perché non adatte alle nuove prescrizioni ministeriali, dunque i piatti arriveranno preconfezionati dalle cucine industriali di grandi aziende della ristorazione collettiva. Le disposizioni sono contenute nelle linee guida del ministero dell’Istruzione per la riapertura delle scuole, più mitigate rispetto a una prima versione che prevedeva l’esclusivo utilizzo dei contenitori di plastica monouso sigillati e che aveva provocato le proteste di associazioni, famiglie e scuole attente all’educazione alimentare dei bambini.

Le disposizioni di viale Trastevere rischiano di mettere la parola fine ai progetti di mense scolastiche biologiche, tutte di piccole dimensioni (tra i trecento e i mille pasti al giorno), attivati di solito con la collaborazione dei Comuni. «Il consumo del pasto a scuola va assolutamente preservato ma sempre garantendo il distanziamento attraverso la gestione degli spazi, dei tempi (turni) di fruizione e, in forma residuale, anche attraverso l’eventuale fornitura del pasto in lunch box per il consumo in classe», ha scritto il Miur in una nota. Inoltre, si prevede la semplificazione dei menu, «qualora gli approvvigionamenti delle materie prime dovessero risultare difficoltosi». Le linee guida per la riapertura prevedono un cambiamento nella modalità di preparazione del pasto e nell’erogazione del servizio. I cibi precotti arriveranno, nella gran maggioranza dei casi, dai centri cucina industriali, e l’Osservatorio sulla ristorazione collettiva e sulla nutrizione (Oricon) sostiene che a rimetterci saranno la fragranza e il gusto delle pietanze. Inoltre, lo scenario ipotizzato dalle società di ristorazione collettiva produrrà, secondo il sito Food Insider , una serie di conseguenze inevitabili, come l’aumento della quantità di rifiuti di plastica e il degrado della qualità dei pasti, costretti per ore a rimanere in contenitori stagnanti di plastica termosaldata.

Con le nuove linee guida, la ministra pentastellata Lucia Azzolina ha quasi azzerato la possibilità di menu sperimentali, cibi a chilometro zero, biologici o provenienti da filiere controllate. Prima del lockdown, una mensa su quattro in Italia utilizzava dal 70 al 100 per cento di prodotti biologici. L’ultimo censimento di BioBank, datato 2018, aveva contato oltre 1.400 mense bio in Italia, con l’indice più alto in Friuli e il primato numerico alla Lombardia, dove 264 istituti erano convertiti al biologico. Ciononostante, già nella prima bozza di linee guida presentate dal ministero della Salute a gennaio, prima del coronavirus, l’Associazione italiana del biologico (Aiab) aveva lanciato l’allarme sulla mancata «valorizzazione» del bio, sul riconoscimento delle «mense biologiche certificate» e sull’assenza di una «filiera dedicata» nella ristorazione collettiva. Ora non è chiaro quale sarà la sorte delle mense biologiche e quanti dei 258 milioni di pasti bio preparati ogni anno negli asili nidi, nelle materne e nelle scuole elementari rimarranno tali e quanti saranno trasformati, in nome della semplificazione dei menu, in pasta, hamburger e patatine convenzionali. Quel che è certo è che con il nuovo anno scolastico gli studenti italiani mangeranno peggio e inquineranno di più. Scrive Food Insider che, oltre al peggioramento del servizio e della qualità dei cibi, si inonderanno le scuole di plastica da smaltire e aumenteranno gli scarti alimentari, che negli istituti italiani già si attestano attorno al trenta per cento. Una scuola di cinquecento bambini, ad esempio, produrrà ogni giorno 1.500 piatti, cinquecento bicchieri e mille posate di rifiuti. Il rispetto della piramide alimentare sarà affidato al buonsenso dei colossi della ristorazione collettiva di massa e le «modalità di erogazione» potranno essere concordate con i Comuni, alcuni dei quali potrebbero decidere di investire sulla qualità dei pasti per mitigare l’impatto delle monoporzioni precotte. Il tutto a tariffe tendenzialmente più alte e affidato a poche grandi aziende, per consentire loro di recuperare le perdite subite durante il lockdown.

Secondo i dati dell’osservatorio sulla ristorazione collettiva e sulla nutrizione (Orecon), tra marzo e aprile si è registrato un calo del 66,6 per cento dei volumi e del 66,8 per cento dei ricavi rispetto allo scorso anno, mentre nel solo mese di marzo la ristorazione scolastica ha fatto registrare un crollo del 94 per cento. Nei due mesi di lockdown sono stati distribuiti 73 milioni e mezzo di pasti in meno rispetto al 2019 e a fine anno si prevede una riduzione del 40 per cento, pur considerando la riapertura delle scuole il 14 settembre. Bastano queste cifre a spiegare quali ragioni economiche possano aver spinto la ministra Azzolina a consegnare la gestione dell’intero settore delle mense scolastiche ai colossi della ristorazione collettiva, che paventavano la perdita di 20 mila posti di lavoro nel settore. Il 24 giugno, i lavoratori e soprattutto le lavoratrici del settore – su un totale di 96 mila addetti di oltre mille aziende di ristorazione collettiva che assicurano un milione e mezzo di pasti al giorno, 61 mila sono finiti in cassa integrazione e di questi l’82 per cento sono donne – sono scesi in piazza in tutta Italia per far sentire la loro voce. La chiusura delle scuole ha sostanzialmente azzerato il loro lavoro, la cassa integrazione è arrivata in gran ritardo e gli addetti alle mense e alle pulizie hanno deciso di rendere visibile il loro malcontento. A Roma, gli addetti alle mense hanno manifestato in piazza Montecitorio, davanti alla Camera dei deputati. All’iniziativa ha partecipato pure il segretario della Cgil Maurizio Landini, che ha chiesto un ammortizzatore sociale universale per tutti i lavoratori colpiti dalla crisi del Covid. In quell’occasione, il tema era il lavoro e non l’alimentazione, anche se senza il primo non è garantita neppure la seconda. «Non sappiamo perché, ma la nostra categoria non viene ascoltata», ha detto una lavoratrice in una videointervista a Collettiva , il portale della Cgil. È stato così anche in quell’occasione. Dal ministero di viale Trastevere non è arrivato alcun commento alle richieste degli addetti alle mense. Visto che non era richiesto, neppure sui menu offerti ai bambini da settembre.

Fonte: Il Manifesto